martedì 12 agosto 2014

Le Alpi prima dei dinosauri

Ripreso dalla prestigiosa rivista internazionale “New Scientist” uno studio condotto dal MUSE sull’ambiente alpino

Le Alpi prima dei dinosauri:

una passeggiata di 270 milioni di anni svela i segreti della locomozione negli anfibi

Il rinvenimento di una serie di reperti fossili di eccezionale rarità distribuiti tra Lombardia e Trentino ha permesso ai ricercatori del MUSE di ricostruire il modo di camminare di antichissimi anfibi simili a salamandre. Lo studio è stato pubblicato sull’ultimo numero dell’importante rivista scientifica internazionale “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology” e ripresa dalla quotata “New Scientist” e dal quotidiano inglese “Sunday Newspaper”.
Un risultato significativo che conferma la portata internazionale delle ricerche condotte dal MUSE, Museo delle Scienze di Trento relativamente all’ambiente alpino, dimostrando quanto l’istituzione sia un’eccellenza non solo per quanto riguarda la capacità di attrarre visitatori, ma anche quale ente che svolge ricerca naturalistica, monitoraggio ambientale e supporto alla gestione del territorio.
Il team che ha studiato i fossili è composto dai ricercatori paleontologi del MUSE Fabio Massimo Petti, Massimo Bernardi e Marco Avanzini coadiuvati da colleghi delle Università di Milano e di Winston-Salem (Nord Carolina, USA).

La novità

Lo studio che è stato pubblicato sull’ultimo numero di “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology”, importante rivista scientifica internazionale e ripresa dalla quotata “New Scientist” indica chiaramente come piccoli anfibi (circa 15 cm) - che provengono dal fango fossile di un lago che, nel lontano periodo Permiano, si estendeva dalla Lombardia al Trentino occidentale - entrassero in acqua passando dal cammino al nuoto in modo del tutto simile a quanto osservabile nelle salamandre attuali. Lo studio dunque suggerisce che le salamandre attuali rappresentino una finestra non solo nella forma ma anche nella biomeccanica degli anfibi permiani, oggi estinti.
Osservare dunque una piccola salamandra muoversi nel sottobosco è un po’ come fare un salto indietro nel tempo di circa 300 milioni di anni, quando animali simili per forma avevano già evoluto una dinamica della locomozione, un modo di muoversi e camminare simile.

“Se l’evoluzione è cambiamento nel tempo, potremmo dire che certi comportamenti, certe dinamiche, soprattutto quelle legate a precisi vincoli fisici o particolarmente efficienti, vengono preservate. Strategia vincente non si cambia”, affermano i paleontologi del MUSE Marco Avanzini e Massimo Bernardi.

Le conclusioni dello studio evidenziano come, nel cambiamento generalizzato delle forme, vi siano dei comportamenti e dinamiche che vengono mantenute perché particolarmente efficienti o perché forzate da vincoli fisici. Il piano strutturale, ovvero l’organizzazione anatomica di base, di una salamandra si è rivelato adatto a superare milioni di anni di cambiamenti ambientali ed ecologici.

Le Dolomiti raccontano

Ancora una volta gli studi svolti dai ricercatori del MUSE evidenziano come il territorio alpino sia fonte di importanti informazioni sulla vita del passato.
Una serie di ricerche concluse negli ultimi mesi, relative agli ecosistemi della regione dolomitica e delle aree circostanti aprono una finestra nel profondo passato. È di questi giorni, ad esempio, l’annuncio ufficiale della casa editrice InTech che il contributo a un volume internazionale sulla paleontologia, pubblicato da Marco Avanzini e Massimo Bernardi (MUSE) e Umberto Nicosia (Università Sapienza, Roma) è risultato il più scaricato (oltre 6000 download) dell’intero settore disciplinare, a conferma dell’interesse internazionale verso la storia paleontologica delle Dolomiti e delle Alpi.
Gli studi pubblicati dal team del MUSE sono parte di un progetto di ricerca finanziato dal MUSE e dalla Provincia autonoma di Bolzano, grazie alla collaborazione tra il Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige e il MUSE. Le ricerche sviluppate nell’ambito del progetto denominato “DoloPT” hanno riaperto le discussioni su cosa sia successo nella regione dolomitica durante la più profonda crisi biologica della storia, l’estinzione di massa di fine Permiano (circa 250 milioni di anni fa), evidenziando quanto le montagne dolomitiche possano fornire risposte a interrogativi dibattuti su scala globale, contribuendo alla conoscenza della storia della vita sul nostro pianeta.

L’impatto sul territorio

Ci si potrebbe chiedere che senso abbia, nel panorama economico attuale, investire in ricerca di questo tipo. Le risposte sono molteplici ma la più importante è quella che mette al centro il ruolo dei centri di ricerca al servizio del territorio. E’ un tema ben presente nella missione del MUSE e che il gruppo dei geologi e paleontologi che vi operano, collaborando con il Dipartimento di Economia dell’Università di Trento ha cercato di definire nella sua ricaduta economica.
Le analisi sono state condotte in più luoghi del Trentino e impostate su diversi beni paleontologici attraverso il paradigma del valore economico totale che cerca di quantificare tutte le funzioni svolte da una determinata risorsa. Si è così dimostrato che luoghi che siano stati protagonisti di una significativa scoperta naturalistica risultano incrementare in modo significativo il loro valore.
Questo è abbastanza comprensibile in casi come quello qui riportato nel quale il blocco con le orme è stato lasciato in sito, è ben visibile, è facilmente raggiungibile dal vicino rifugio e in prospettiva potrebbe rappresentare un’ulteriore attrattiva di richiamo per il turismo (pensiamo alla gola del Bletterbach nel vicino Alto Adige).
Ma se è vero che nei turisti è necessario rinnovare periodicamente l'interesse nei confronti del patrimonio ambientale tramite azioni mirate di divulgazione, nel caso delle comunità locali la diffusione di conoscenza riguardo all’ambiente naturale ha effetto più duraturo e va a rafforzare il patrimonio di sapere tacito di una comunità e ad aumentare il valore percepito del proprio territorio.

La qualità di un museo moderno non deriva quindi soltanto dalla rilevanza del patrimonio e dei beni contenuti, ma anche dalla sua capacità di fornire servizi, di promuovere ricerca e cultura, di qualificare lo sviluppo del territorio circostante. Ciò significa che un museo può assolvere ad un ruolo sociale se è al contempo istituto di ricerca e di divulgazione scientifica. La ricerca produce cultura e la cultura può favorire lo sviluppo locale, soprattutto nelle realtà in cui il sistema dei musei interviene in un'area caratterizzata dalla presenza di consolidati "giacimenti" culturali ed ambientali.

In tale contesto, la ricerca nei musei contribuisce allo sviluppo culturale, sociale, economico delle comunità locali e al loro radicamento al territorio. Proprio per rigenerare quelle radici che la società moderna ha spesso reciso nel suo correre verso il progresso, i musei si trasformano da custodi della memoria di un luogo a formatori di coscienza. Senza la ricerca i musei potranno solo raccontare storie già sentite e riempire le vetrine di “pietre mute”.


APPROFONDIMENTO  
Le Alpi prima dei dinosauri: una passeggiata di 270 milioni di anni svela i segreti della locomozione negli anfibi 
DOVE - COME
L’area di studio si colloca nelle Alpi Centrali, a cavallo tra le province di Bergamo, Brescia e di Trento. In quest’area affiorano tra le più antiche rocce fossilifere delle Alpi conosciute in tutto il mondo per le tracce fossili di piccoli tetrapodi (anfibi e rettili) in esse conservate. Tra queste orme, quelle studiate fin dalla metà del 1800 nelle Alpi Orobie rappresentano le prime documentate in Italia grazie ai lavori di celebri studiosi quali Giulio Curioni (1870), geologo e grande conoscitore della geologia delle Alpi lombarde. L’area è da lungo tempo oggetto di studio da parte delle Università di Milano e Pavia e dei musei che insistono sul territorio (Bergamo e Brescia). Per questo studio i geologi dell’Università di Milano (Fabrizio Berra e Andrea Tessarollo) hanno coinvolto i paleontologi del MUSE (Marco Avanzini, Massimo Bernardi e Fabio Massimo Petti) che si sono avvalsi dell’esperienza di una collega statunitense (Myriam Ashley-Ross), esperta nella biomeccanica degli anfibi attuali per interpretare i dati fossili in chiave attualistica.
L’area è da lungo tempo oggetto di studio da parte delle Università di Milano e Pavia e dei musei di Bergamo e Brescia. Alla ricerca di confronti con analoghe orme trovate in alcuni siti del Trentino (Monte Luco e Tregiovo in Valle di Non e Val Daone ) i ricercatori del Muse hanno intrapreso a partire dal 2009 alcune campagne di prospezione avvalendosi della collaborazione e della conoscenza dei luoghi dei geologi dell’Università di Milano (Fabrizio Berra e Andrea Tessarollo) e Pavia (Ausonio Ronchi e Giuseppe Santi).
I REPERTI FOSSILI ANALIZZATI
La maggior parte dei dati utilizzati nello studio derivano dall’analisi di un grande blocco caduto dal fianco del monte Pizzo del Diavolo, nelle Alpi Orobie. Parte di un vasto macereto di frana il grande blocco espone una superficie di circa 8 m2 che preserva con eccezionale dettaglio le tracce fossilizzate del passaggio di numerosi anfibi che 280 milioni di anni fa entrarono in una pozza d’acqua poco profonda. Le camminate sul terreno quasi asciutto si riconoscono bene per le tracce delle zampe complete di dita dall’estremità arrotondata e il solco sinuoso lasciato sul fango molle dalla coda ondeggiante e trascinata al suolo. Le tracce lasciate nuotando nell’acqua bassa sono invece riconoscibili per gli ampi solchi o graffi a mezzaluna lasciati dalle dita degli animali che, con il corpo tenuto sollevato dall’acqua graffiavano il fondo. L’eccezionalità del rinvenimento consiste nelle tracce che furono impresse proprio al margine della pozza. Esse diventano via via meno definite, le zampe si allargano ai lati del corpo, le dita strisciano sul fondo e la coda oscilla con frequenza diversa trasformandosi via via in motore per spingersi in acqua.
Il blocco era stato notato da una serie di ricercatori, fino alla segnalazione dello stesso da parte di uno degli autori dello studio, il geologo Fabrizio Berra dell’Università di Milano, ai ricercatori del MUSE, esperti nella paleontologia dei vertebrati Permiani e Triassici. Si è così costituito un team che, nel corso di una serie di missioni hanno esporato dapprima la geologia dell’area (Università di Milano) per poi affrontare le specifiche analisi paleontologiche (MUSE, Trento). I rilevi fisici e virtuali effettuali in logo sono poi stati analizzati presso il MUSE di Trento dove sono oggi conservati.
IL PALEOAMBIENTE E IL SITO DI RINVENIMENTO
Circa 280 milioni di anni fa la regione delle Alpi e Prealpi lombarde e del trentino occidentale era occupata da un vasto bacino lacustre. Le spiagge avevano colori scuri dati dall’accumulo di sabbie e fanghi di origine vulcanica. La regione infatti, era stata in quel periodo interessata da imponenti sconvolgimenti tettonici che alimentarono anche potenti eruzioni vulcaniche, a tratti anche violente.
I piccoli anfibi autori delle tracce fossili studiate camminarono su fango umido e bagnato delle rive del lago imprimendo tracce poco profonde. L’eccezionale qualità di preservazione delle orme ha permesso, circa 280 milioni di anni dopo la loro messa in posto, di riconoscere queste labili tracce e di derivarne un modello della locomozione, ovvero di ricostruire le caratteristica della camminata.
Circa 50 milioni di anni fa, quando le Alpi iniziarono a corrugarsi, gli antichi depositi ormai divenuti roccia furono sollevati e disposti cosi come li vediamo oggi.Ecco perché i reperti studiati dal team di ricerca si trovano oggi a circa 2300 m di altezza. Parte degli studi sono stati condotti nella tarda primavera dello scorso anno, quando parte del sito paleontologico era ancora parzialmente coperto dalla neve.
L’ICNOLOGIA, LO STUDIO DELLE TRACCE FOSSILI
Come possiamo sperimentare ogni giorno, individui (siano essi rettili, anfibi o noi stessi) di diverse dimensioni e proporzioni camminano in modo differente. I diversi stili locomotori sono determinati dall’anatomia (come ad esempio dalla proporzione di mani, piedi, lunghezza degli arti) e dai forzanti biomeccanici, ovvero dalla possibilità di flettere/estendere gli arti durante il ciclo locomotorio. Lo studio delle singole tracce fossili, e delle successioni di passi (dette anche piste fossili) hanno dunque permesso di attribuire le orme ad un piccolo anfibio appartenente al gruppo dei temnospondili, i più diffusi anfibi nel Permiano. Alcuni resti scheletrici di temnospondili, peraltro, erano stati documentati alcuni anni prima in depositi di età comparabile in Sardegna e nella Francia meridionale, a supporto dell’ipotesi che simili anfibi fossero comuni abitanti dell’Europa meridionale circa 280 milioni di anni fa.
GLI ESPERIMENTI ATTUALISTICI
Grazie alla collaborazione con la Dr.ssa Myriam Ashley-Ross, ricercatrice presso l’università di Winston-Salem (North Carolina), la dinamica locomotoria degli anfibi fossili così come dedotta dallo studio delle orme fossili, è stata comparata con quella delle salamandre attuali, che rappresentano un modello di studio comparabile con le caratteristiche dei piccoli anfibi autori delle orme considerate.   L’analisi biomeccanica è stata effettuata attraverso esperimenti nei quali piccole salamandre vengono fatte camminare o nuotare in vasche standardizzate e filmate con videocamere ad alta frequenza. Le caratteristiche desunte sono state quindi schematizzate e confrontate con quelle dedotte dalla sovrapposizione di un modello di temnospondilo alle orme analizzate.

LE CONCLUSIONI E IL SIGNIFICATO EVOLUTIVO
Tra le conclusioni dello studio l’evidenza che lo stile locomotorio e la biomeccanica delle salamandre attuali, evoluitasi centinaia di milioni di anni fa, ed stata successivamente ereditata o utilizza da diversi gruppi. Quella delle salamandre è locomozione “di base”, sostenuta da omeri e femori mantenuti in posizione circa-orizzontale, paralleli rispetto al suolo, e dunque con le zampe divaricate rispetto al corpo. Una simile meccanica è osservabile in un altro gruppo molto antico: i coccodrilli. Questo tipo di locomozione si è conservato in alcuni gruppi, mentre è andato perso in altri, come ad esempio nei mammiferi, che hanno evoluto uno stile di locomozione completamente diverso, nel quale le zampe sono mantenute in posizione verticale sotto al corpo.
L’evoluzione è cambiamento nel tempo, pare dunque strano affermare che anfibi vecchi di 280 milioni di anni si muovessero in modo simile alle salamandre attuali. Le conclusioni dello studio evidenziano come, nel cambiamento generalizzato delle forme, vi siano dei comportamenti e dinamiche che vengono mantenute perché particolarmente efficienti o perché forzate da vincoli fisici. Il piano strutturale, ovvero l’organizzazione anatomica di base, di una salamandra si è rivelato adatto a superare milioni di anni di cambiamenti ambientali ed ecologici. L’ecologia delle salamandre e l’ambiente in cui esse hanno vissuto fino ad oggi non hanno dunque richiesto profonde modificazioni tali da alternare in modo significativo la struttura ancestrale.
Le salamandre sono un valido modello di studio per i paleontologi, gli studiosi della vita del passato, che possono riconoscere nella loro forma ed ecologia un corrispettivo attuale dei primi anfibi che, a partire da circa 370 milioni di anni fa, conquistarono le terre emerse.

LA SCOPERTA IN NUMERI
200      le orme scoperte
12        le “piste” o camminate rilevate
5          il numero delle dita nei piedi
4          il numero delle dita nelle mani
15        la lunghezza del corpo dei produttori delle tracce
2          le salamandre attuali utilizzate per il confronto

GRUPPO DI RICERCA

Paleontologi
Marco Avanzini                      MUSE, Trento
Massimo Bernardi                  MUSE, Trento
Fabio Massimo Petti   MUSE, Trento
Rossana Todesco                    MUSE, Trento

Geologi
Fabrizio Berra                        Università degli Studi di Milano
Andrea Tessarollo                  Università degli Studi di Milano

Biologi
Miriam A. Ashley-Ross          Wake Forest University, Wisnston-Salem (North Carolina)

Foto
MUSE, Trento

Illustrazioni
Marco Avanzini                      MUSE, Trento


Il progetto Dopo-PT

Lo studio, supportato finanziariamente dal MUSE - Museo delle Scienze di Trento, è parte di un progetto più ampio, coordinato dal Museo di Scienze Naturali dell’Alto Adige di Bolzano e dal MUSE di Trento, denominato “La crisi ecologica del Permo-Triassico nelle Dolomiti: dinamica di estinzione e biotic recovery negli ecosistemi terrestri”, abbreviato in “DoloPT”.

La perdita irreversibile di specie è forse il sintomo più allarmante di un’estinzione di massa in corso. Per comprendere le conseguenze del declino dell’attuale biodiversità, è importante indagare sulle passate estinzioni di massa e capire i pattern di risposta delle specie al deterioramento ambientale a livello globale.
L’evento di estinzione più grave durante la storia della Terra avvenne 251 milioni di anni fa, al limite Permiano-Triassico. Nel corso di questo evento circa il 95% di tutte le specie marine e circa il 70 % delle specie di vertebrati terrestri estinse. Tuttavia cause ed effetti e tempi di questa estinzione di massa ed il successivo recupero biotico negli ecosistemi terrestri sono tuttora scarsamente conosciuti. Le nostre conoscenze di questo evento sono principalmente basate sullo studio di successioni marine in Europa e Asia, mentre la scarsità di depositi continentali, restringe lo studio degli ecosistemi terrestri alle poche successioni continue, conservatesi in Sud-Africa, Cina, Russia, Australia ed Antartide.
Le Dolomiti e le aree contermini rappresentano una delle poche località al mondo ove è possibile uno studio integrato delle differenti componenti degli ecosistemi terrestri. Uno studio approfondito di quest’area, si propone quindi di far luce sui dibattiti in corso inerenti alle cause dell’estinzione di massa e del recupero biotico attraverso il limite Permiano-Triassico ed in generale l’evoluzione degli ecosistemi terrestri tra il Permiano Inferiore ed il Triassico.

Nel progetto DoloPT sono stati analizzati numerosi affioramenti riferibili al Permiano inferiore, superiore e al Triassico inferiore e medio, attraverso un approccio multidisciplinare nel quale si integrano i contributi di ricercatori provenienti da differenti discipline e aree scientifiche (paleobotanica, palinologia, paleontologia dei vertebrati e degli invertebrati, biologia, sedimentologia, stratigrafia sequenziale e biostratigrafia). L’utilizzo di metodologie e tecnologie innovative (ad es. laser scanner, fotogrammetria digitale ad alta risoluzione, etc.), applicato sia allo studio dei fossili che delle sequenze stratigrafiche, rappresenta uno strumento chiave per ricostruire una sequenza evolutiva degli ecosistemi terrestri, in un arco temporale di circa 50 milioni di anni attraverso il limite Permiano-Triassico. Questo progetto è volto dunque a raccogliere importanti indizi sulle cause e sulle conseguenze dell’estinzione di massa di fine Permiano, ed una comprensione più approfondita del pattern evolutivo degli ecosistemi terrestri dal Permiano inferiore (circa 280 milioni di anni fa) alla fine del Triassico (circa 200 milioni di anni fa).

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